Sigmund Freud’s The Ego and the Id
Sigmund Freud è morto 80 anni fa questa settimana, e il suo studio del 1923, The Ego and the Id, che ha introdotto molti dei concetti fondamentali della psicoanalisi, è entrato nel pubblico dominio all’inizio di quest’anno. Le idee di Freud sono state a lungo assorbite dalla cultura popolare, ma quale ruolo continuano a svolgere nell’accademia, nella professione clinica e nella vita quotidiana? Per rispondere a queste domande, questa tavola rotonda – curata da Public Books e JSTOR Daily – interroga gli studiosi sull’eredità di The Ego and the Id nel 21° secolo.
– Elizabeth Lunbeck: Pity the Poor Ego!
– Amber Jamilla Musser: Il luogo sommerso: Race, Racism, and Freud
– Todd McGowan: The Superego or the Id
Pity the Poor Ego!
Elizabeth Lunbeck
Sarebbe difficile sopravvalutare l’importanza di The Ego and the Id di Freud per la teoria e la pratica psicoanalitica. Questo saggio di riferimento ha anche goduto di una robusta vita extra-analitica, dando al resto di noi sia una terminologia utile che un modello facilmente comprensibile del funzionamento della mente. L’Io, l’Es e il Super-Io (gli ultimi due termini hanno fatto il loro debutto in L’Io e l’Es) sono ora ineluttabilmente parte della cultura popolare e dei discorsi colti, dei commenti politici e dei discorsi quotidiani.
Scrivete “id ego superego” in una casella di ricerca di Google e probabilmente sarete indirizzati a siti che offrono di spiegare i termini “for dummies” – una misura dell’ubiquità dei termini se non della loro comprensibilità. Potreste anche imbattervi in immagini dei Simpson: Homer rappresenta l’id (motivato dal piacere, caratterizzato da un desiderio sfrenato), Marge l’ego (controllato, vincolato alla realtà), e Lisa il superego (l’arcigna coscienza della famiglia), tutte cose che non hanno bisogno di spiegazioni, tanto sembrano intuitivamente a portata di mano.
Se aggiungete “politics” alla stringa di ricerca, troverete siti che sostengono che il successo di Donald Trump è premesso al fatto che parla al nostro id collettivo, ai nostri desideri di essere liberi dai rigori punitivi della legge e della morale e di afferrare qualsiasi cosa ci piaccia – “un capriccio agitato di energia carnale”. Barack Obama in questo schema occupa la posizione del superego benigno: incorruttibile, cauto, e dato alla moralizzazione, l’incarnazione delle nostre idee e valori più alti ma, alla fine, non molto divertente. Da Google capirete anche che l’ego di Trump è fragile e bisognoso, ma anche immenso e furioso, il suo stato – piccolo o grande che sia – una terribile minaccia per la stabilità e la sicurezza della nazione.
Notiziario settimanale
In questi esempi, l’ego è usato in due modi diversi, anche se non del tutto contraddittori. Nei Simpson, l’ego appare come un’agenzia che si sforza di mediare tra l’id e il superego. Quando parliamo del fragile ego di Trump, il termine viene usato in modo diverso, per riferirsi alla totalità del sé, o alla persona intera. Quando diciamo di qualcuno che il suo ego è troppo grande, stiamo criticando il suo essere e la sua auto-presentazione, non il suo (presumibilmente) debole superego.
L’idea dell’ego come agenzia è abitualmente considerata più analiticamente rigorosa e quindi più “freudiana” dell’ego come sé, eppure entrambe le interpretazioni dell’ego si trovano non solo nella cultura popolare, ma anche, forse sorprendentemente, in Freud. Inoltre, sosterrei che la seconda di queste concettualizzazioni freudiane, premessa ai sentimenti, è più consona a una costruzione del sé tipicamente americana di quanto lo siano le astrazioni della psicologia dell’Io. Capire perché questo è così richiede uno sguardo alla storia post-Freud dell’Io in America, in particolare ai tentativi di alcuni psicoanalisti di chiarire le ambiguità nei testi di Freud, tentativi che, per nostra fortuna, hanno avuto un successo misto.
Come Freud ha proposto in L’Io e l’Es, tre agenzie della mente si contendono la supremazia: l’Io cerca di dominare sia l’Es che il Super-Io, un compito continuo e spesso infruttuoso di fronte alle passioni selvagge e alle richieste di soddisfazione dell’Es, da un lato, e alle richieste schiaccianti, persino autoritarie, del Super-Io di sottomettersi ai suoi dettami, dall’altro. Il lavoro della psicoanalisi era “rafforzare l’Io”; come Freud notoriamente disse 10 anni dopo, “dove c’era l’Es, lì ci sarà l’Io”
L’Io freudiano cercava di armonizzare le relazioni tra le agenzie della mente. Aveva “funzioni importanti”, ma quando si trattava del loro esercizio era debole, la sua posizione, nelle parole di Freud, “come quella di un monarca costituzionale, senza la cui sanzione nessuna legge può essere approvata, ma che esita a lungo prima di imporre il suo veto su qualsiasi misura proposta dal Parlamento”. Altrove nel saggio, l’Io nei confronti dell’Es non era un monarca ma un uomo comune, “un uomo a cavallo, che deve tenere a freno la forza superiore del cavallo… obbligato a guidarlo dove vuole andare”. Sottomettendosi all’Es, l’Io-come-cavaliere potrebbe almeno conservare l’illusione della sovranità. Il super-io non avrebbe tollerato una simile fantasia nell’ex reale, stabilendo invece “un’agenzia dentro di lui” per monitorare i suoi desideri di aggressione, “come una guarnigione in una città conquistata”. Peccato per il povero ego!
Si potrebbe sostenere che gli psicoanalisti viennesi emigrati che presero il controllo dell’establishment analitico americano negli anni del dopoguerra fecero proprio questo. Hanno amplificato i poteri di padronanza dell’Io freudiano, minimizzando i suoi conflitti con l’Es e il Super-Io. Formularono una scuola di pensiero analitico distintamente ottimista e melioristica, la “psicologia dell’Io”, in cui l’Io era idealmente maturo e autonomo, un’agenzia della mente che funzionava senza problemi, orientata all’adattamento con l’ambiente esterno. Più di qualche commentatore ha sostenuto che la celebrazione della conformità e la de-enfasi del conflitto da parte della psicologia dell’ego si adattano perfettamente alle richieste dello stato corporativo del dopoguerra, così come all’enfasi prevalente sulla conformità e l’adattamento. Si pensi a The Organization Man di William H. Whyte, pubblicato nel 1956, o a The Lonely Crowd di David Riesman, del 1950, best seller che furono letti come lamenti per una perduta età dell’oro dell’individualismo e dell’autonomia.
Tra le conquiste professate dagli psicologi dell’ego di metà secolo c’era quella di chiarire l’ambiguità produttiva di Freud sui significati del termine; da allora in poi l’ego si sarebbe riferito alle funzioni di regolazione e adattamento dell’agenzia, non alla persona o al sé. Si consideri che il decano della psicologia dell’Io, Heinz Hartmann, rimproverava gentilmente Freud per aver talvolta usato “il termine Io in più di un senso, e non sempre nel senso in cui era meglio definito.”
L’egemonia americana degli psicologi dell’Io era premessa alla loro pretesa di essere gli eredi più fedeli di Freud; L’Io e l’Es era in cima alla lista dei testi fondamentali della loro scuola. Il testo di Freud, tuttavia, sostiene una concettualizzazione dell’Io non solo come un’agenzia della mente (la loro lettura) ma anche come un senso di sé sperimentato. In esso, Freud si era riferito in modo intrigante all’ego come “prima di tutto un corpo-io,” spiegando che esso “deriva in ultima analisi dalle sensazioni corporee.”
Ignorata dagli psicologi dell’Io, l’affermazione di Freud fu ripresa negli anni ’20 e ’30, tra gli altri, dall’analista viennese Paul Federn, che coniò il termine “sentimento dell’Io” per catturare la sua convinzione che l’Io fosse meglio interpretato come riferito alla nostra esperienza soggettiva di noi stessi, il nostro senso di esistere come persona o sé. Sosteneva che l’ego doveva essere concepito in termini di esperienza, non concettualizzato come un’astrazione mentale. Il sentimento dell’Io, spiegò nel 1928, era “la sensazione, costantemente presente, della propria persona – la percezione che l’Io ha di se stesso”. Federn era un fenomenologo, che criticava implicitamente Freud e i suoi eredi per aver favorito la sistematizzazione rispetto all’esperienza sentita e allo stesso tempo si configurava come un seguace, non come un pensatore indipendente. L’emarginazione è stata il prezzo della sua fedeltà, dato che lui e le sue intuizioni sono state largamente trascurate nel canone analitico.
Quando parliamo dell’Io americano, è più probabile che stiamo parlando il Federn-ese. Federn apprezzava l’evanescenza degli stati d’animo e la complessità delle nostre esperienze di sé. Parlare delle nostre “risorse interiori” e dell’equanimità, della necessità dell’egoismo e della sua compatibilità con l’altruismo, delle fantasie comuni di “amore, grandezza e ambizione” attraversa i suoi scritti. Anche la seduta analitica è probabilmente focalizzata più manifestamente sugli “obiettivi dell’autoconservazione, dell’arricchimento, dell’autoaffermazione, delle conquiste sociali per gli altri, del guadagnare amici e aderenti, fino alla fantasia della leadership e del discepolato” che sull’assicurare la supremazia dell’Io sull’Es e sul Super-Io.
L’Io e l’Id sostiene una tale lettura dell’Io come esperienza di sé, l’individuo in possesso della conoscenza della sua “identità e continuità nel tempo” corporea e mentale. Il “sentimento dell’Io” di Federn è anche compatibile con le invocazioni vernacolari degli anni Cinquanta del “vero sé”, così come con il senso di identità che Erik Erikson definì in termini di sentimenti che gli individui hanno di se stessi come persone viventi, che fanno esperienza, il sé autentico che sarebbe diventato il Santo Graal per così tanti americani negli anni Sessanta e oltre. Erikson, anch’egli psicologo dell’ego ma bandito dalla corrente principale dell’analisi per la sua attenzione alla dimensione esperienziale del sé, avrebbe catturato questa stessa sensibilità sotto la rubrica dell’identità. La sua delineazione del termine identità per riferirsi a un senso soggettivo del sé, ripresa da un giorno all’altro all’interno e oltre la psicoanalisi, ha probabilmente fatto di più per assicurare la sopravvivenza della disciplina negli Stati Uniti di quanto non abbiano fatto tutte le fatiche dei più devoti seguaci di Freud.
Quindi, mentre Google può darci immagini (compresi i cartoni animati) di una mente freudiana suddivisa con precisione, è l’Io olistico come sé che è il soggetto della maggior parte del nostro quotidiano discorso terapeutico e analitico. Questo ego-come-sé è meno facilmente rappresentato pittoricamente della sua controparte integrata, ma è comunque centrale per i nostri modi di trasmettere la nostra esperienza di noi stessi e degli altri. È autenticamente psicoanalitico come il suo doppio linguistico, né una corruzione delle intenzioni di Freud né un’importazione dalle vaporose portate della psicologia umanistica. Quando invochiamo l’ego smisurato e facilmente contundente di Trump, per esempio, facciamo appello a questa dimensione del termine, riferendoci al suo senso di sé, al tempo stesso gonfio e fragile. Federn è stato dimenticato, ma la sua sensibilità analitica centrata sui sentimenti continua a vivere. Può essere tanto più rilevante oggi, quando, come molti hanno osservato, i nostri sentimenti non sono più sequestrati dalla ragione e dall’oggettività ma, invece, mobilitati strumentalmente come la moneta del regno populista.
Salta a: Elizabeth Lunbeck, Amber Jamilla Musser, Todd McGowan
The Sunken Place: Race, Racism, and Freud
Amber Jamilla Musser
In una scena tesa del film Get Out del 2017, Missy (Catherine Keener) trova il ragazzo di sua figlia, Chris (Daniel Kaluuya), che fuma di nascosto una sigaretta fuori e lo invita nel salotto, che funge anche da ufficio per i suoi clienti in terapia. Chris, un fotografo nero, ha appena incontrato per la prima volta la famiglia liberale della sua ragazza bianca, Rose, compresa sua madre, Missy. Mentre i due siedono uno di fronte all’altra, Missy chiede a Chris della sua infanzia, il suo cucchiaio colpisce ripetutamente l’interno di una tazza da tè, e Chris, con gli occhi che lacrimano in modo incontrollabile, comincia a sprofondare profondamente nel “luogo sommerso”. Mentre l’ambiente che lo circonda scompare dalla vista, si agita e cade in un grande vuoto nero, prima di svegliarsi nel suo letto, incerto su ciò che è successo. L’impostazione dello studio di terapia è degna di nota, perché mentre ciò che segue questa scena iniziale di ipnosi è una commedia dell’orrore sul razzismo, le idee psicoanalitiche dell’inconscio aiutano a illuminare le relazioni razziali nel film e oltre.
Nel film, il “luogo sommerso” si riferisce a uno stato di fuga che sottomette i personaggi neri in modo che (attenzione allo spoiler) il cervello del miglior offerente bianco possa essere trapiantato nei loro corpi. Mentre questo grande vuoto nero è il prodotto dell’immaginazione del regista Jordan Peele, il “luogo sommerso” è culturalmente venuto a significare un aspetto pernicioso della razzializzazione; vale a dire, la sovraidentificazione dei non bianchi con la bianchezza. Recenti memi rendono chiara questa connessione. In uno, Kanye West, che non molto tempo fa sosteneva che il presidente Trump era in “un viaggio da eroe”, appare sulla poltrona di Get Outwear con un cappello “Make America Great Again”, con le lacrime che gli scorrono sul viso. In un’altra, l’attrice Stacey Dash, che si è candidata al Congresso come repubblicana della California, fissa in bianco fuori da una finestra.
L’Io e l’Es di Freud, tuttavia, ci dà un altro modo di capire il “luogo sommerso”. Scrivendo nel 1923, Freud presenta una mappa completa della psiche come uno spazio in cui l’Io, il Super-Io e l’Es formano una struttura dinamica che reagisce ed è formata da molteplici varietà dell’inconscio. Il superego, sostiene Freud, agisce come una sorta di controllo “normativo” sul comportamento, mentre l’Es è energia libidica e puramente edonistica. L’Io, quello che viene messo in atto coscientemente, bilancia queste due diverse modalità dell’inconscio per funzionare.
Il modello freudiano ci aiuta a capire come la razionalizzazione, il processo di comprensione di se stessi attraverso il prisma delle categorie razziali, avviene a livello dell’inconscio. Se visto nel contesto della psicoanalisi, il “luogo sommerso” è ciò che accade quando l’attaccamento del super-io alla bianchezza va fuori controllo; quando gli occhi di Chris si lacrimano e lui involontariamente graffia la poltrona, sta mettendo in atto una resistenza corporea che è collegata all’Es. Inoltre, la struttura di Freud ci permette anche di estendere questa comprensione della razza al di là dell’individuo, per pensare al perché il “luogo sommerso” può essere visto come un metonimo delle relazioni razziali negli Stati Uniti in generale. In uno dei suoi impegni più espliciti con la differenza razziale, Civilization and its Discontents del 1930, egli limitò le sue teorizzazioni della differenza razziale al pensiero dell’atavico e del primitivo. Seguendo Freud, altri analisti all’inizio del 20° secolo tendevano ad ignorare le dinamiche razziali sottostanti nelle loro teorie. Per esempio, se i pazienti discutevano dell’etnia o della razza di un custode o di altre figure ricorrenti nella loro vita, gli analisti tendevano a non esplorare ulteriormente questi argomenti. Come un ricco corpo di lavoro critico contemporaneo sulla psicoanalisi ha esplorato, questa disattenzione alla razza ha creato un presupposto di normatività universale che era, di fatto, legato alla bianchezza.
Mentre la psicoanalisi ha storicamente ignorato o gestito male le discussioni sulla razza, L’Io e l’Es di Freud introduce concetti che sono utili per pensare alle relazioni razziali sia a livello individuale che nazionale. La sua divisione tripartita della psiche può aiutarci a mostrare come la razza stessa funzioni come un “metalinguaggio”, per usare la frase di Evelyn Higginbotham, che struttura l’inconscio e le possibilità di emergere dell’Io. In Get Out, “il luogo sommerso” è il palcoscenico di una battaglia tra un superego identificato come bianco, che è indotto attraverso il trapianto di cervello o l’ipnosi, e un id identificato come nero. Al di fuori dei parametri della fantascienza, tuttavia, questa lotta interiore razziale offre spunti per le teorizzazioni dell’assimilazione e della razzializzazione più in generale. Il sociologo Jeffrey Alexander descrive l’assimilazione, un processo di adattamento a una forma di normatività (implicitamente bianca), come un tentativo di incorporare la differenza attraverso la cancellazione, pur insistendo su alcuni residui inassimilabili (razzializzati). Alexander scrive: “L’assimilazione è possibile nella misura in cui esistono canali di socializzazione che possono fornire processi ‘civilizzanti’ o ‘purificanti’ – attraverso l’interazione, l’educazione o la rappresentazione mediata di massa – che permettono alle persone di essere separate dalle loro qualità primordiali. Non sono le qualità stesse ad essere purificate o accettate, ma le persone che prima, e spesso ancora privatamente, le portavano”. Le tensioni tra queste rappresentazioni della normatività bianca – la “civiltà” – e le particolari “qualità” che compongono il soggetto minoritario che Alexander nomina sono simili alla lotta perpetua che Freud descrive tra il Super-Io, l’Es e l’Io.
Attraendo dalla psicoanalisi, teorici recenti come David Eng e Anne Anlin Cheng hanno enfatizzato la malinconia che accompagna l’assimilazione – le lacrime involontarie di Chris nel “luogo sommerso” e le istanze di fissare fuori dalla finestra, le corse serali e le urla indotte dai flash degli altri personaggi neri che hanno ricevuto impianti di cervello bianco sono forse tra le forme più estreme. Cheng sostiene che il dover assimilare una cultura bianca produce malinconia sia per l’irraggiungibilità della bianchezza per i soggetti neri e bruni, sia per la repressione dell’alterità razziale necessaria a sostenere il dominio bianco. La descrizione di Cheng della “perdita inarticolabile che viene a informare il senso individuale della propria soggettività” aiuta a spiegare perché le condizioni della normatività bianca possono essere particolarmente dannose dal punto di vista psicologico per i soggetti non bianchi.
Mentre i concetti di Freud sono utili per comprendere il peso psicologico della razzializzazione per i soggetti non bianchi in condizioni di normatività bianca, gli studiosi hanno anche esplorato come i concetti di Freud di Io, Es e Super-Io possano essere usati per teorizzare ciò che significa inquadrare la bianchezza come una forma di coscienza nazionale. Descrivendo gli impulsi sadici di Jim Crow, il teorico e psichiatra Frantz Fanon ha sostenuto che l’Io degli Stati Uniti è masochista. Immaginando la struttura psichica del paese nel suo complesso, egli vide uno scontro tra l’Es aggressivo della nazione – che cercava di dominare la gente di colore – e il suo Super-Io – che si sentiva in colpa per il razzismo palese di un paese presumibilmente “democratico”.
Fanon sosteneva che il desiderio degli Stati Uniti di punire la gente di colore (che si manifestava nella virulenta violenza anti-nera) era rapidamente “seguito da un complesso di colpa a causa della sanzione contro tale comportamento dalla cultura democratica del paese in questione.” Fanon ha esposto l’ipocrisia insita nel tenere ideali antirazzisti mentre si permette alla violenza razzista di fiorire. Il masochismo nazionale del paese, sosteneva, significava che gli Stati Uniti non potevano riconoscere le proprie forme di aggressione bianca; invece, il paese abbracciava una posizione di passività e vittimizzazione in relazione ai non bianchi che disconoscevano la loro violenza manifesta. O, nel linguaggio di Freud, il paese ha sommerso l’id in favore di un’idealizzazione del superego.
Vediamo questa dinamica anche in Get Out, dove i personaggi bianchi feticizzano la fisicità e il talento dei neri come in qualche modo inerenti alla loro razza, mentre negano strenuamente ogni accusa di razzismo. Nel film, i personaggi bianchi che desiderano abitare i corpi neri si intendono principalmente come vittime dell’invecchiamento e di altri processi di debilitazione, una logica che permette loro di usare il loro presunto affetto per il nero per mascherare le loro tendenze aggressive e dominatrici. Prima che Chris e Rose incontrino i suoi genitori, Rose gli dice che avrebbero votato per Obama per un terzo mandato, un’affermazione ripetuta in una scena successiva, da suo padre (Bradley Whitford), quando nota che Chris osserva i lavoratori domestici neri nella proprietà: “A proposito, avrei votato per Obama per un terzo mandato se avessi potuto. Il miglior presidente della mia vita. A mani basse”. In una tale dichiarazione, possiamo vedere come l’ego bianco masochista di cui parlava Fanon rimanga un riflesso accurato dei dibattiti nazionali sulla correttezza politica, su ciò che conta come razzismo e sulla questione dei risarcimenti.
Come Get Out aiuta a drammatizzare, possiamo usare l’eredità dell’analisi dell’inconscio di Freud per identificare le tensioni al lavoro negli individui che lottano per assimilare un’idea percepita di normatività bianca. Ma possiamo anche usare i concetti psicoanalitici per capire come certe idee di razza abbiano creato una coscienza nazionale bianca che, negli Stati Uniti e altrove, è in crisi. Su questa scala più ampia, possiamo cominciare a vedere come il superego nazionale abbia suturato la normatività a un’idea perniciosa di bianchezza, che manifesta un’aggressione psicologica, ma anche fisica, contro i soggetti non bianchi.
Perché, mentre la presunzione che la bianchezza sia la cultura “normale” e dominante la colloca nella posizione del super-io per gli individui che stanno tentando di assimilare, questa assunzione di superiorità è in realtà una posizione ansiosa, perseguitata dagli altri razziali e costantemente minacciata dalla possibilità di destabilizzazione. Per molti, questo ha portato alla difficoltà di fare i conti con le tendenze violente della cultura bianca e all’insistenza sulla sua innocenza. Lavorare di più con queste dinamiche freudiane potrebbe aiutarci a pensare più attentamente sia alle strategie di resistenza e sopravvivenza dei soggetti non bianchi, sia a come potrebbero essere i contorni più completi della responsabilità bianca: Elizabeth Lunbeck, Amber Jamilla Musser, Todd McGowan
Il Super-Io o l’Id
Todd McGowan
Per comprendere correttamente L’Io e l’Id, dovremmo mentalmente ribattezzarlo Il Super-Io. I due termini più frequentemente invocati dal testo di Freud del 1923 sono, forse senza sorpresa, l’Io e l’Es. Li abbiamo facilmente integrati nel nostro pensiero e li usiamo liberamente nel discorso quotidiano. Il terzo termine del modello strutturale, il superego, riceve molta meno attenzione. Questo è evidente, per esempio, nella psicoanalisi pop che circonda Donald Trump. Alcuni lo diagnosticano come un narcisista, qualcuno innamorato del proprio ego. Altri dicono che rappresenta l’id americano, perché manca dell’autocontrollo che inibisce la maggior parte delle persone. Secondo questi punti di vista, ha o troppo ego o troppo id. Mai uno che fa autocritica, il problema di Trump non sembra essere un eccesso di superego. Se il superego entra in gioco nella diagnosi, si direbbe che il problema è la sua mancanza di un superego adeguato.
Nella ricezione popolare del pensiero di Freud, la scoperta dell’Es rappresenta tipicamente il suo contributo più significativo alla comprensione di come agiamo. L’Es segna il punto in cui gli individui mancano di controllo su ciò che fanno. Gli impulsi dell’Es ci spingono ad agire in modi che sono inaccettabili per il resto della società. Eppure, il concetto di Es ha una funzione confortante, in quanto ci permette di associare le nostre azioni più inquietanti a impulsi biologici di cui non siamo responsabili. Per questo motivo, dobbiamo guardare oltre l’Es se vogliamo vedere come Freud sconvolge maggiormente la nostra autocomprensione.
L’introduzione del Super-Io da parte di Freud, al contrario, rappresenta il momento più radicale de L’Io e l’Es, perché sfida tutte le concezioni tradizionali della moralità. Tipicamente, il nostro senso del bene collettivo trattiene l’amoralità dei nostri desideri individuali: potremmo voler schiantare la nostra auto contro il guidatore che ci ha appena tagliato la strada, ma la nostra coscienza ci impedisce di interrompere la nostra capacità collettiva di coesistere come guidatori sulla strada. Storicamente, la ricezione del lavoro di Freud ha considerato il superego come questa voce della coscienza morale, ma Freud teorizza che ci sono radici amorali a questa voce morale. Secondo Freud, il superego non rappresenta il bene collettivo, ma manifesta i desideri individuali dell’Es, che vanno contro il bene collettivo.
Con la scoperta del concetto di superego, Freud rimodella il nostro modo di pensare a noi stessi come attori morali. Se Freud ha ragione sul fatto che il superego “arriva in profondità nell’Es”, allora tutti i nostri impulsi apparentemente morali hanno le loro radici nel godimento libidico. Quando ci rimproveriamo per un desiderio ribelle di una collega sposata, questo rimprovero morale non dissipa il godimento di questo desiderio, ma lo moltiplica. Quanto più sperimentiamo un desiderio come trasgressivo, tanto più ardentemente lo sentiamo. In questo modo, il super-io ci permette di godere del nostro desiderio pur credendo coscientemente di frenarlo.
Il concetto di super-io rivela che il quadro tradizionale della morale nasconde un’amoralità fondamentale, ed è per questo che la risposta a L’Io e l’Es lo ha scrupolosamente evitato. Quando traduciamo idee radicali come il superego nella nostra comprensione comune, riveliamo le nostre presunte credenze e valori. In tale traduzione, più un concetto subisce distorsioni, più deve rappresentare una sfida al nostro modo ordinario di pensare. Questo è il caso dell’enfasi popolare sull’Io e l’Es rispetto al Super-Io. Ciò che si è perso è la scoperta più radicale all’interno di questo testo.
Il nostro fallimento nel riconoscere come Freud teorizza il super-io ci lascia incapaci di affrontare le crisi morali che ci confrontano oggi. Possiamo vedere le conseguenze catastrofiche nel nostro rapporto contemporaneo con l’ambiente, per esempio. Man mano che il nostro senso di colpa per la plastica negli oceani, le emissioni di carbonio e altri orrori aumenta, aumenta il nostro godimento della plastica e del carbonio piuttosto che sminuirlo. Usare la plastica cessa di essere solo una comodità e diventa una trasgressione, che ci dà qualcosa di cui godere dove altrimenti avremmo solo qualcosa da usare.
Il godimento comporta sempre una relazione con un limite. Ma in questi casi, il godimento deriva dalla trasgressione, il senso di andare oltre un limite. Il nostro senso di colpa cosciente per la trasgressione corrisponde a un godimento inconscio che il superego aumenta. Quanto più gli avvertimenti ambientali assumono la forma di indicazioni del super-io, tanto più creano senso di colpa senza cambiare la situazione di base. Lungi dal limitare il godimento dei nostri desideri distruttivi, la morale diventa, nel modo di pensare di Freud, un terreno privilegiato per esprimerlo, anche se in forma mascherata. Si scopre che ciò che pensiamo come moralità non ha niente a che fare con la moralità.
Il superego produce un senso di trasgressione e quindi sovralimenta il nostro desiderio, trasformando la moralità in un modo di godere di noi stessi. Riprendendo la scoperta di Freud 50 anni dopo, Jacques Lacan annuncia: “Niente obbliga nessuno a godere (jouir) se non il superego. Il super-io è l’imperativo del godimento: godere! Tutti i nostri impulsi apparentemente morali e i dolori di coscienza che ne conseguono sono modi di obbedire a questo imperativo.
In questa luce, potremmo rivalutare la diagnosi di Donald Trump. Se sembra incapace di trattenersi e appare costantemente preoccupato di trovare divertimento, questo suggerisce che il problema non è né troppo ego né troppo id. Dovremmo invece azzardare l’interpretazione “psicoanalitica selvaggia” che Trump soffre di troppo superego. La sua preoccupazione di divertirsi – e di non divertirsi mai abbastanza da trovare soddisfazione – riflette la predominanza del super-io nella sua psiche, rendendo chiaro che il super-io non ha nulla a che fare con la moralità reale, e tutto con l’immoralità sfrenata. Al contrario, la scoperta del superego e del suo imperativo di godere richiede un nuovo modo di concepire la moralità. Piuttosto che essere il veicolo della moralità, il superego è una grande minaccia per qualsiasi azione morale, perché ci permette di credere che stiamo agendo moralmente mentre in realtà stiamo trovando un percorso tortuoso verso il nostro godimento. Contrariamente alla lettura popolare del superego, l’azione morale autentica richiede un rifiuto degli imperativi del superego, non l’obbedienza ad essi.
La moralità liberata dal superego non comporterebbe più il senso di colpa. Si concentrerebbe sulla ridefinizione del nostro rapporto con la legge. Piuttosto che vedere la legge come una costrizione esterna impostaci dalla società, la vedremmo come la forma che prende la nostra autolimitazione. Questo comporterebbe un cambiamento nel modo in cui ci relazioniamo alla legge. Se la legge è la nostra autolimitazione piuttosto che un limite esterno, perdiamo la possibilità di godimento associata alla trasgressione. Si può trasgredire una legge ma non la propria autolimitazione.
In termini di crisi ambientale contemporanea, concepiremmo un vincolo all’uso della plastica come l’unico modo per godere dell’uso della plastica, non come una restrizione a questo godimento. Il limite all’uso diventerebbe la nostra forma di godimento perché il limite sarebbe nostro, non qualcosa che ci viene imposto. Il superego ci impone di rifiutare qualsiasi limite spingendo il nostro godimento sempre oltre. Identificare la legge come la nostra autolimitazione ci fornisce un modo per rompere con la logica del superego e la sua forma fondamentalmente immorale di moralità.
Dato il titolo che scelse per il libro – L’Io e l’Es – è chiaro che nemmeno Freud stesso identificò correttamente ciò che era più radicale nella sua scoperta. Ha omesso il superego dal titolo a spese dell’Io e dell’Es, anche se il suo riconoscimento del superego e del suo ruolo nella psiche rappresenta l’intuizione chiave del libro. In questo senso, Freud ha aperto la strada al malinteso popolare che è seguito.
Quello che viene mancato o ignorato dalla società spesso rivela ciò che più la turba. Le nostre credenze e i nostri valori comuni possono tentare di attutire il disturbo causato da idee radicali come il superego, ma non eliminano completamente la loro influenza. Concentrandoci su ciò che Freud stesso omette, possiamo scoprire l’intuizione nella sua opera più capace di aiutarci a pensare oltre i confini della morale tradizionale. Il cammino di una moralità genuina deve andare oltre il superego.
Jump to: Elizabeth Lunbeck, Amber Jamilla Musser, Todd McGowan